Classici Italiani
La codificazione del Decamerone come testo paradigmatico della lingua italiana - 1492

Data 01/12/2020       Categoria Classici Italiani
Autore Admin

La codificazione del Decamerone come testo paradigmatico della lingua italiana - 1492

BOCCACCIO, Giovanni (1313-1375). Decamerone o ver cento novelle. (Venezia, Giovanni e Gregorio De Gregori, 20 giugno 1492).

 

PRIMA EDIZIONE ILLUSTRATA del Decamerone, il più importante testo in prosa della nostra letteratura.

Composto dopo la peste del 1348, l’opera raccoglie cento novelle che sono narrate in dieci giornate da dieci giovani amici (sette donne e tre uomini) per allietare il loro soggiorno in un palazzo di campagna, dove hanno trovato rifugio dalla pestilenza che imperversa a Firenze. A detta dello stesso autore, la raccolta ha un carattere prevalentemente amoroso e si rivolge soprattutto alle donne. La situazione fuori dall’ordinario provocata dall’epidemia giustifica, nell’economia dell’opera, le licenziosità e le arguzie anticlericali presenti nei racconti della compagnia, che altrimenti sarebbero state difficilmente consentite.

La diffusione manoscritta del Decamerone avvenne in modo del tutto casuale, senza alcun interessamento da parte dell’autore. Anche dopo la morte di quest’ultimo, l’opera fu letta e copiata soprattutto da membri della borghesia agiata delle città italiane in codici dalla veste piuttosto modesta e quasi sempre privi di illustrazioni.

Le prime edizioni a stampa, a partire da quella che viene considerata come l’editio princeps del Decamerone, la così detta Deo Gratias (Napoli, Tipografia del Terenzio, 1470), seguita a ruota dalla stampa veneziana di Valdarfer del 1471 e da quella mantovana di Pietro Adamo de Micheli del 1472, continuarono su questa linea.

Il fatto è che Boccaccio, nei centocinquant’anni che seguirono la sua morte, fu ammirato ed imitato più per le sue opere minori, soprattutto latine, che non per il Decamerone. Ad esse furono infatti riservate le edizioni figurate più lussuose, prodotte prevalentemente in Germania ed in Francia, da cui furono tratti i materiali utilizzati per illustrare le due edizioni figurate del Decamerone apparse a Parigi nel 1485 e ad Augusta nel 1490.

In questo contesto culturale la stampa veneziana dei De Gregori segnò una svolta epocale non solo per il suo sontuoso apparato iconografico creato ad hoc, ma anche perché in essa per la prima volta, grazie alla collaborazione editoriale dell’umanista Girolamo Squarzafico, a cui si deve anche la Vita di miser Iohanne Boccatio (già stampata più volte insieme al Filocolo a partire dal 1467), il testo del Boccaccio fu sottoposto a quel rigore filologico che solitamente era riservato alle opere latine. Con Squarzafico la cultura umanistica prese possesso del Decamerone, facendolo assurgere al livello della letteratura d’arte e anticipando in questo l’operazione di promozione del volgare condotta da Pietro Bembo nei primi anni del Cinquecento.

L’edizione veneziana del 1492, per la sua duplice valenza iconografica e filologicoumanistica, rappresentò dunque un punto di svolta, che influenzò tutte le stampe successive. Le figure vennero più volte riprodotte fino alla metà del secolo successivo, ma, già a partire dall’edizione di Manfredo De Bonellis del 1498, furono in parte censurate.

 

Nel processo di affermazione della dignità letteraria del volgare che si va codificando nel corso del Cinquecento, a differenza delle opere delle altre due Corone fiorentine, la fortuna editoriale del Decamerone rimase quasi esclusivamente legata all’aspetto linguistico. Considerato dal Fortunio e dal Bembo come punto di riferimento principale per la lingua e per lo stile in prosa (come Dante e, soprattutto, Petrarca lo erano per quello in versi), il capolavoro del Boccaccio assurse al rango di classico solamente su questo piano. Tutta la tradizione paratestuale delle edizioni italiane cinquecentesche del Decamerone fa principalmente leva sui meriti linguistici e stilistici dell’opera, sorvolando spesso, non senza un certo imbarazzo, sui suoi contenuti, considerati di puro divertissement.

L’interesse filologico che crebbe intorno al Decamerone, mirò non soltanto a restituire un testo il più possibile fedele a quello originale, ma anche a far emergere il valore paradigmatico della sua prosa volgare attraverso strumenti accessori come lessici, commentari ed elenchi di epiteti e varianti.

Un notevole balzo in avanti nella qualità testuale si ebbe con l’edizione curata nel 1516 da Niccolò Delfin (Venezia, Gregorio de Gregori), che collazionò il testo dell’edizione mantovana del 1472, che a sua volta si rifaceva sostanzialmente alla princeps, con alcuni manoscritti quattrocenteschi. Ne risultò un testo linguisticamente ineccepibile nella sua coloritura fiorentina trecentesca. Sull’edizione Delfin furono esemplate tutte le successive stampe del Decamerone, a partire da quella data dagli eredi di Aldo (Venezia, 1522), che comprende anche le tre novelle pseudoboccaccesche, aggiunte all’opera per la prima volta dai Giunta nel 1516.

Sul testo dell’aldina del ’22 e quindi indirettamente su quello della Delfin si basa anche l’edizione pubblicata a Firenze dagli eredi di Filippo Giunta nel 1527 (la celebre ventisettana). Ad essa lavorarono Bardo Segni, Pier Vettori, Baccio Cavalcanti e Francesco Guidetti, i quali, confrontando il testo del 1522 con alcuni manoscritti, in particolate con l’autorevole codice Mannelli, produssero la miglior edizione del Decamerone fino ai tempi moderni.

A questo punto entrò in scena l’intraprendente editore veneziano Giovanni Giolito de’ Ferrari, che fu uno dei protagonisti del decennio d’oro del Decamerone. Negli anni Quaranta del Cinquecento apparvero ben dieci edizioni dell’opera, quasi quante ne erano state date nel XV secolo. Giolito pubblicò dapprima, a due riprese (1538 e 1542), il testo curato da Antonio Brucioli e accompagnato dai nuovi apparati di commento da lui escogitati. Quindi, insieme ai suoi collaboratori Francesco Sansovino e Lodovico Dolce, mandò fuori nel 1546 quella che sarebbe diventata la sua versione standard, più volte riprodotta negli anni seguenti, la quale, oltre ad una nuova Vita di Boccaccio e ad una Dichiaratione di tutti i vocaboli, detti proverbii, e luoghi difficili di mano del Sansovino, aveva la peculiarità, modellata sulle edizioni tardo-quattrocentesche dei classici latini, di presentare un sia pur essenziale apparato di varianti.

La produzione di nuovi corredi di carattere linguistico-grammaticale da accompagnare al Decamerone continuò anche nel decennio successivo. Mentre in Francia, paese dove Boccaccio ebbe notevole smercio, l’editore lionese Guillaume Rouillé pubblicò il Decamerone in lingua originale (1555), servendosi della collaborazione del fiorentino Luca Antonio Ridolfi, a Venezia Vincenzo Valgrisi si avvalse a partire dal 1552 delle annotazioni del suo revisore Girolamo Ruscelli. Sempre a Venezia, nel 1557, Comin da Trino accorpò per la prima volta al testo boccaccesco Le ricchezze della lingua volgare di Francesco Alunno, che erano apparse autonomamente nel 1543 (Venezia, eredi di Aldo Manuzio).

Conclusesi i lavori del Concilio di Trento, divenne sempre più difficile per i tipografi stampare il Decamerone senza incorrere nelle maglie della censura ecclesiastica. Fu soprattutto la sua rilevanza linguistica che permise la sopravvivenza editoriale dell’opera. A Firenze una commissione di deputati, guidata da Vincenzo Borghini, fu incaricata di epurare il testo e uniformarlo ai dettami conciliari. Ne nacque l’edizione giuntina del 1573, poi nuovamente corretta nove anni dopo da Leonardo Salviati, uno dei fondatori dell’Accademia della Crusca, che tra il 1584 e il 1586 produsse anche due volumi di Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone.

Il dolore per l’epurazione fu compensato da Borghini e Salviati con un grande scrupolo filologico. Furono loro a creare il mito del codice Mannelli, che per secoli, prima della scoperta del codice Hamilton della biblioteca di Berlino, fu considerato come il testimone più autorevole del capolavoro boccaccesco. Nel corso dei due secoli seguenti l’assoluto dominio delle edizioni giuntine del 1573 e del 1582 andò di pari passo con la venerazione per quel codice, il cui trascrittore era considerato molto vicino al Boccaccio. Nel 1761 a Lucca ne fu data persino un’edizione diplomatica.

 

Giovanni Boccaccio, originario di Certaldo, in giovane età fu mandato dal padre, che era al servizio della compagnia mercantile dei Bardi, a compiere il proprio tirocinio a Napoli presso la locale filiale della casa. Non portato per gli affari, ottenne di potersi dedicare agli studi letterari. Contemporaneamente condusse un’attiva vita mondana negli ambienti altolocati napoletani e presso la corte angioina.

Nel 1340 il fallimento dei Bardi lo costrinse a far ritorno a Firenze. Da quella data in poi la vita di Boccaccio trascorse in relativa miseria. Dimorò prevalentemente a Firenze, il cui comune gli affidò alcuni incarichi diplomatici, ma occupò anche cariche di corte presso vari principi e signori italiani. Nel 1354 e nel 1365 fu inviato ad Avignone presso i papi. Negli ultimi anni prese gli ordini minori. Nel 1373 ottenne l’incarico di leggere pubblicamente la Divina commedia.

Amico e corrispondente di Francesco Petrarca (i due si erano conosciuti nel 1350), Boccaccio fu profondamente influenzato dalla personalità di quello che considerava un maestro. Fu Boccaccio a far conoscere a Petrarca l’opera di Dante. Egli si prodigò tutta la vita per promuoverla e diffonderla. Raccolse e copiò più volte in vari codici il corpus dantesco, cui aggiunse successivamente anche quello petrarchesco. Il monumento che egli costruì a Dante e Petrarca sancì il primato del fiorentino sul piano linguistico e lanciò un messaggio che sarebbe poi stato ripreso cent’anni dopo dai filologi della corte medicea e da Pietro Bembo nel suo lavoro di revisione editoriale.

 

Descrizione fisica. Un volume in folio di cc. 5 non numerate, 1 bianca, 137 numerate, 1 bianca. Testo stampato su due colonne. Con ritratto dell’autore al recto della quinta carta preliminare, ripetuto anche in fine alla carta 136 sopra l’Excusatione dello auctore; grande legno e cornice xilografica alla carta a1; alla carta 5, dove inizia la Prima Giornata, grande xilografia, ripetuta poi per 6 volte; altra grande figura in legno al verso della carta 51, ripetuta per 2 volte; inoltre 100 vignette nel testo ad illustrazione delle novelle. Grande marca tipografica in fine con le iniziali Z G.

F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010






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