MEMMO, Andrea (1729-1793). Elementi d’architettura lodoliana ossia l’arte del fabbricare con solidità scientifica e con eleganza non capricciosa. Libri due. Zara, Fratelli Battara; Milano, Società editrice dei Classici Italiani di Architettura Civile, 1834.
SECONDA EDIZIONE, corretta ed aumentata del libro secondo, di questo influente trattato che traduce in architettura i principi razionalisti dell’illuminismo.
Andrea Memmo, letterato, diplomatico e uomo politico di antica nobiltà veneziana, raccolse fedelmente e mise per iscritto gli insegnamenti del suo maestro Carlo Lodoli, da molti definito il “Socrate architetto”, perché durante la sua vita non volle lasciare memoria alcuna delle sue teorie artistiche.
Memmo pubblicò a sue spese il primo libro di riflessioni lodoliane nel 1786 (Roma, Pagliarini), ma non riuscì a dare alle stampe il secondo. Dopo la sua morte il manoscritto dell’opera, che nel frattempo egli aveva sottoposto a varie correzioni, fu affidato ad una nobildonna sua parente. Fu poi Lucia Memmo, figlia di Andrea, a promuoverne la stampa.
L’edizione completa degli Elementi fu pubblicata a partire dal 1833 da una società appositamente costituita, denominata Società editrice dei classici italiani di architettura civile, che la vendette in sottoscrizione ai propri associati. Dopo l’uscita della prima parte, gli editori si accorsero che le tre promesse dispense di 240 pagine cadauna erano superiori alla mole effettiva dell’opera. Ristamparono quindi il frontespizio della prima parte, sostituendo la data del 1833 con quella del 1834 e cambiando la dicitura Libri tre in Libri due. Alla fine della seconda parte, per raggiungere un numero di pagine più vicino a quello programmato, furono poi aggiunte due orazioni, che erano state lette nel 1787 presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia: una di Pietro Zaguri, che attacca le teorie del Lodoli; l’altra, pronunciata dal Memmo, che ne prende le difese.
Padre Lodoli (1690-1761), geniale figura del Settecento veneziano, fu professore di teologia e precettore di molti giovani nobili della sua patria. Egli si dilettò di pittura e di architettura, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista teorico, ma, come si diceva, non volle pubblicare nessuno scritto. Il manoscritto contenente i suoi precetti di architettura, che doveva apparire a stampa intorno alla metà del secolo, rimase infatti inedito e andò disperso dopo la sua morte. Senza la fedele trascrizione del Memmo il suo pensiero sarebbe andato quindi irrimediabilmente perduto. Anticipando molti concetti moderni, egli sostenne l’importanza del materiale nello stile e mise in evidenza il valore funzionale dell’edificio, che deve immediatamente trasparire dalla sua “rappresentazione”. Rifiutando le facciate eccessivamente ornamentali, egli avversò quindi l’estetica barocca.
Lodoli per primo pose sullo stesso piano bellezza e stile, da una parte, e scopo ultimo di un edificio o di un oggetto, dall’altra. In antitesi ai sfarzosi mobili del suo tempo, egli sottolineò per esempio l’importanza della funzionalità anatomica delle seggiole, la cui forma deve adattarsi alla fisionomia del corpo umano. La bellezza di un oggetto scaturisce per lui dalla perfetta funzionalità di tutte le sue componenti, che fanno sì che esso diventi il miglior modello possibile del suo genere.
Le teorie lodoliane, prima di essere fissate dal Memmo, furono fatte proprie da molti pensatori del tempo. Esse influenzarono in particolare le opere di Francesco Algarotti e Francesco Milizia, ma furono saccheggiate anche da autori stranieri.
Cristoforo Lodoli nacque a Venezia da una famiglia di origine umbra. Nel 1707 prese i voti presso il convento francescano di Càttaro, assumendo il nome di Carlo. Nel 1710 si trasferì a Roma, dove iniziò la sua passione per le belle arti. Dopo un soggiorno di tre anni a Forlì, fu invitato ad insegnare teologia presso il convento di San Bernardino a Verona, dove conobbe e ottenne la protezione di S. Maffei. Nel 1720 fece ritorno a Venezia, stabilendosi nel convento di San Francesco della Vigna, che rimase la sua dimora fino alla morte.
Durante la sua vita egli svolse vari incarichi sia nell’ambito del suo Ordine, che per conto della Repubblica. In particolare fu commissario dell’ospizio di Terra Santa, edificio destinato ai pellegrini annesso al monastero, che egli fece ristrutturare nel 1743, e revisore alle stampe e ai libri in dogana.
Nello svolgere queste mansioni egli dimostrò grande liberalità, suscitando le ire della classe politica più conservatrice. Promosse e difese infatti le opere di autori controversi come P. Giannone e G.B. Vico, con i quali fu personalmente in contatto.
Nel 1722, allorché gli venne affidata dal Maffei l’educazione di Carlo Soranzo, Lodoli cominciò la sua attività prediletta, quella di insegnante. La sua scuola, di cui fu allievo anche F. Algarotti, divenne celebre tra il patriziato veneziano e riscosse ampi consensi.
Dopo la sua morte, avvenuta a Padova nel 1761, Memmo pubblicò anche gli Apologhi immaginati (Bassano, 1787), una raccolta di favolette morali, detti e racconti paradossali che Lodoli amava raccontare agli amici e agli allievi.
Descrizione fisica. Due volumi in 8vo di pp. (8), 391, 1 bianca + pp. (6), 256.
F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010