BAFFO, Giorgio (1694-1768). Le Poesie di Giorgio Baffo patrizio veneto. S.l. [Londra o Venezia?], s.n., 1771.
PRIMA EDIZIONE apparsa postuma e clandestina, forse a Venezia per interessamento del console Smith (collezionista di quadri e grande amante della cultura letteraria veneziana) o più probabilmente a Londra, come sostengono alcuni. Una seconda edizione apparve nel 1789 a Londra, mentre l’edizione più completa in quattro volumi delle opere del Baffo (Raccolta universale delle opere) uscì a Cosmopoli (Venezia o Londra?) nel 1789 a spese del conte di Pembrocke, suo grande estimatore.
Molte poesie, che avevano avuto una circolazione manoscritta e anonima mentre l’autore era ancora in vita, sono tuttavia rimaste inedite fino ad oggi. Baffo rifiutò un’ingente somma che gli era stata offerta da alcuni viaggiatori inglesi desiderosi di stampare le sue composizioni, e pare che negli ultimi anni di vita avesse tentato di distruggere gran parte delle sue carte.
Nato il 1 agosto 1694 da una famiglia della piccola aristocrazia “di toga”, compiuti gli studi, Giorgio (Zorzi) Baffo intraprese la scontata carriera professionale alla quale solamente poteva aspirare un nobile non di primo rango qual’era. Dopo i primi incarichi a Peschiera ed Asola, nel 1732 entrò nelle Quarantie, in particolare nella Quarantia criminal.
Egli amava girare in toga per la città e recitare le sue poesie nelle caffetterie e nelle botteghe, dove la sua compagnia era sempre molto ricercata. Cominciò a poetare in giovane età nel segno di una blasfema e sacrilega dissacrazione e con uno spirito di rivalsa nei confronti di quel conformismo e rigorismo sociale, che egli era costretto a subire nella sua carica di pubblico ufficiale. Il suo motto poetico, che contrapponeva alla noia della poesia arcadica, fatta di zampogne, sospiri e paesaggi stereotipati, è: «Cazzo ghe vol!».
Dietro l’ostentazione della sessualità e di una presunta libertà naturale dell’uomo, dietro il profondo astio per le istituzioni ecclesiastiche, dietro lo scetticismo verso la vita ultraterrena e il disincanto di fronte alla comunità umana, Baffo celava uno spirito insofferente alle rigide regole della società veneta e un’inclinazione verso le nuove tendenze filosofiche illuministico-materialiste. Ma egli scrisse soprattutto per divertire se stesso e i propri amici, dissacrando, come pochi avevano fatto in precedenza, le autorità religiose e politiche della sua città, pur non diventando mai per questo un rivoluzionario.
Il suo veneziano, quella lingua materna che sola gli consentiva l’immediatezza e la spontaneità che egli ricercava, non è il veneziano del popolo; è di fatto una lingua colta, che tutti i membri della piccola aristocrazia dei Quaranta utilizzavano quotidianamente nello svolgimento dei loro incarichi pubblici. La lingua di Baffo, come la sua cultura, si colloca emblematicamente fra la lingua alta dei ceti dirigenti e la volgarità festosa del popolo.
Descrizione fisica. Un volume in 12mo grande di pp. (2), 250, 2 bianche.
F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010