FOLENGO, Teofilo (1491-1544). Opus Merlini Cocaii Poetae Mantuani Macaronicorum. (Toscolano sul Lago di Garda, Alessandro Paganino, 5 gennaio 1521).
PRIMA EDIZIONE della seconda e più riuscita versione delle celebri Macaronee di Teofilo Folengo. Questi aveva pubblicato una prima, ma parziale redazione dei suoi testi in lingua macaronica a Venezia presso i torchi dello stesso Paganino nel 1517.
La presente edizione, conosciuta come Toscolanese, contiene la Zanitonella (una serie di ventuno liriche sulla vita rusticale), l’inedita Moscheide (un poemetto in distici elegiaci sulla battaglia delle mosche e delle formiche di imitazione omerica), un Libellus epistolarum et epigrammatum e il poema Baldus, passato da diciassette a venticinque libri rispetto alla prima edizione.
Il Baldus , considerato il capolavoro di Folengo, è una sorta di continuazione comica della leggenda carolingia, in cui il protagonista, Baldus appunto, nipote di un re di Francia, abbandonato dal padre in tenera età, viene allevato da un contadino di nome Berto. Potenzialmente destinato alla vita di raffinato cavaliere, Baldus si riduce ad essere un semplice ruffiano dai modi volgari e dalle frequentazioni poco raccomandabili. L’aspra critica dell’aristocrazia, dei cortigiani e del clero che il Folengo traccia in quest’opera profondamente anticlassica, nonché l’uso comico del linguaggio e il forte realismo unito ad un senso di esplosiva ribalderia libertina ebbero grande influenza sull’opera di François Rabelais.
Folengo si firma come Merlin Cocai, nato a Cipada, il borgo che fronteggia la virgiliana Pietole. Nutrito da una merla, egli trae ispirazione dal vino e dai piatti di gnocchi. Rispetto al sentimentale Limerno e al serioso Fulica, gli altri due pseudonimi di cui Folengo si servì nella sua carriera letteraria, Merlin Cocai rappresenta il carattere faceto e burlesco dell’autore.
La parodia del modello virgiliano e dei suoi imitatori volgari e latini parte dallo straordinario mélange linguistico, che inserisce elementi dialettali e gergali in una struttura prosodica e sintattica ricca di citazioni colte.
Le figure dell’eroe e del pastore, così idealisticamente tratteggiate in J. Sannazaro e G. Pontano, una volta trasferite nel mondo macaronico, si trasformano in personaggi non più spinti da desideri e ideali, ma dominati da istinti e bisogni. In questa nuova dimensione antropologica i valori sono capovolti: ciò che è basso e corporale, di norma taciuto nella cultura ufficiale, esce alla ribalta e soppianta ciò che tradizionalmente è considerato alto e nobile.
Rispetto alla redazione precedente, la Toscolanese esprime una maggiore consapevolezza poetica e offre un linguaggio rinnovato, in cui la fusione tra componente latina e volgare si fa sempre più sottile. Essa ci consegna la fase più brillante del genio folenghiano, più matura rispetto alla versione del 1517 e non ancora condizionata dalle inibizioni religiose e classiciste che caratterizzeranno le due redazioni successive, conosciute come Cipadense (stampata senza data fra il 1530 e il 1535 con false note tipografiche) e Vigasio Cocaio, così chiamata dal nome del misterioso prefatore (apparsa postuma a Venezia nel 1552).
Anche dal punto di vista tipografico l’edizione del 1521 si distingue rispetto alla prima per il ricco ed originale apparato iconografico, che la rende una vera e propria gemma delle edizioni cinquecentesche.
Teofilo Folengo, al secolo Girolamo, nacque a Mantova. Proveniente da una famiglia di mercanti e notai (suo prozio fu il celebre Vittorino da Feltre), intorno al 1509 entrò nell’ordine benedettino, che all’epoca contava fra i suoi aderenti raffinati studiosi della bibbia ebraica e della patrologia greca, i quali esercitarono una profonda influenza sul giovane monaco.
Questi rimase nell’ordine fino al 1525, anno in cui fu dispensato dai voti. Insieme ad uno dei suoi fratelli si abbandonò allora ad una vita raminga, prima di decidere di far ritorno alla chiesa, venendo riammesso nell’ordine intorno al 1534, dopo quattro anni di penitenza vissuti come eremita.
Nel 1526 Folengo pubblicò a Venezia due opere profane, l’ Orlandino e il Chaos del Triperuno. Nel 1533 scrisse il poema religioso L’umianità del figlio di Dio con l’intenzione di redimere le sue passate pubblicazioni secolari.
Nel 1538 fu inviato in Sicilia presso Palermo. In quegli anni numerosi monaci mantovani soggiornarono nell’isola: tra questi Benedetto da Mantova, che tra il 1537 e il ’39 vi compose il celebre Beneficio di Cristo. Folengo vi scrisse una sacra rappresentazione, l’ Atto della Pinta, che fu più volte messa in scena. Nel 1542 fece ritorno in terra veneta. Morì il 9 dicembre del 1544.
Descrizione fisica. Un volume in 16mo di cc. 272, (8) con 54 figure in legno nel testo a piena pagina. Il fascicolo finale di otto carte, segnato MM, è privo di paginazione ed è chiaramente avulso dal resto dell’opera. La supervisione del Folengo alle operazioni di composizione e stampa della presente edizione è riscontrabile nell’elaborata e complessa vicenda di questo fascicolo. A volte mancante, di esso si conoscono due differenti tirature. La prima contiene un breve scambio epistolare fra Folengo e Paganino, l’errata, la Tabula facetiarum ed un sonetto. Nella seconda allo scambio epistolare fa seguito il Dialogus Philomusi, un’errata più breve del precedente, la Tabula facetiarum, una nuova lettera del Folengo e infine il medesimo sonetto Se di piacer, trastullo, gioia e spasso.
F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010