Il mio primo contatto con la Banca Commerciale di Mattioli, se non ancora con lui, fu con quel nido di antifascisti che era l’Ufficio Studi diretto da Ugo La Malfa, a cui mi aveva presentato uno dei suoi collaboratori, e carissimo amico mio, Antonio Amendola, fratello minore di Giorgio. Era il 1940 e con La Malfa e Antonio, a cui si aggiungevano talora altri commensali, avevo occasione di pranzare alle Colline Pistoiesi in via Amedei. Udii al telefono la voce di Raffaele Mattioli per la prima volta nel '42, quando, alle mie prime armi come libraio antiquario, chiamò per chiedere dal catalogo l’edizione originale delle Memorie poetiche di Tommaseo, pubblicate a Venezia dal Gondoliere nel 1840. Poi la guerra ci divise, lui a Roma, io in Svizzera.
Soltanto nell’autunno del ’45 lo incontrai di persona; venne in libreria accompagnato dal comune amico Sergio Solmi, che gli aveva parlato di me. Fui conquistato immediatamente da quel che diceva e soprattutto, come seppi più tardi che accadeva a molti, dal suo sorriso che ho ancora davanti agli occhi. Fu, quello suo per i libri, un amore di tutta la vita, anche se Mattioli rifiutava d’esser catalogato come ‘bibliofilo’: considerava infatti bibliofili puri coloro che, non leggendo, trasformano in mania di possesso la loro passione. Per distinguersene, li tacciava di ‘filatelici’ poiché, come i filatelici non usano i francobolli che raccolgono, non fruiscono dei libri che gelosamente racchiudono in biblioteca, non usandoli per il fine a cui sono destinati: la lettura. Tuttavia a un certo momento volle un ex libris e scelse un legno cinquecentesco che rappresentava l’arcangelo Raffaele con Tobia che portava il pesce. ?Più adatto se avesse portato un libro? gli dissi. Mattioli era un lettore formidabile, con una memoria da elefante.
A citare un verso di Dante, si rischiava di dover ascoltare il canto sino alla fine. Erano tempi, quelli della sua educazione e della sua maturazione – oltre che di ottime scuole –, nei quali la memoria non era costipata dall’invadenza dei mass media – pubblicità o televisione – e da sollecitazioni di ogni genere. Anche mio padre, nato quindici anni prima di lui, conosceva a memoria interi canti della Commedia e brani di classici greci e latini. Del resto, poiché il discorso naviga verso il mondo dell’economia, Luigi Einaudi e Gustavo Del Vecchio, più o meno della stessa generazione di mio padre, non erano da meno. La memoria è, poi, il naturale nutrimento della conversazione e come per il suo grande amico Bacchelli, a parte la lettura, la conversazione era uno dei suoi strumenti preferiti che, sovente senza parere, riusciva a timonare nella direzione voluta anche con partners considerati difficili ed estrosi, quale Roberto Longhi, o difficilissimi, talora incomprensibili, come Gianfranco Contini.
Non era soltanto brillante, ma creativamente penetrante: traeva dallo spesso affascinato interlocutore – soprattutto se nuovo nel confrontarsi con lui – tutto quello che c’era, talora al di là di quello ch’egli conosceva di sé. Un uso maieutico, a volte teatrale, sempre un po’ compiaciuto, di un talento sofistico, con paradossi e ribaltamenti degni del più perito dei dialettici. Scandagliava chi gli stava di fronte, oltre l’immenso tavolo dietro il quale sedeva, fin nelle più intime risorse intellettuali, riuscendo persino a promuoverle. Se soprattutto la parte francese della sua biblioteca economica antiquaria la formò Bernstein, quella italiana la formai in massima parte io: più che cliente diretto, Mattioli mi indirizzava coloro, amici e conoscenti, desiderosi di fargli un dono sicuramente gradito. La scelta, spesso difficile, toccava a me e doveva, di volta in volta, ottenere la sua approvazione. Nei miei riguardi non valeva tanto la competenza, quanto l’affetto che mi mostrava, oltre alla vicinanza: avevo infatti trovato i locali alla casa editrice Ricciardi che amministravo, quando da Napoli si stabilì a Milano, di fianco e nello stesso palazzo della mia libreria al 3 di via Borgonuovo.
Almeno due volte alla settimana rimanevo a chiacchierare, per ragioni di ufficio o puro piacere, con lui, da solo o partecipe, la sera, del gruppo degl’intimi. Nella primavera del ’51, quando mi aveva dato l’incarico di occuparmi della Ricciardi, volle che lo accompagnassi a Parigi per andare insieme da qualche libraio antiquario. Viaggiammo la notte di domenica e il lunedi dopopranzo attraversammo il pont Royal per raggiungere la riva sinistra: il tiepido sole di aprile faceva scintillare i vetri delle finestre sul quai di fronte. Mattioli indossava un cappotto invernale e portava, con un piglio un po’ spavaldo, alla Caruso, il consueto feltro a tesa larga e rialzata. Per cominciare salimmo da Bernstein, all’ammezzato di una casetta di rue Guenegaud, tappezzato di scaffali colmi di libri, la più parte in legature d’epoca. Buon amico di Sraffa, che era il prediletto fra quelli di Mattioli, Bernstein dominava la storia e la bibliografia delle dottrine economiche, delle origini del socialismo, della letteratura marxista. Aveva creato il nucleo originario della Biblioteca Feltrinelli. Di mezza età, basso di statura, godeva di grande prestigio anche per la sua attività clandestina durante l’occupazione: si era specializzato, per rimanere nella carta stampata, in false carte d’identità. Mattioli e lui si misero a parlare fittamente di questa o quella rara edizione, e il libraio si alzava dal divano, dove sedevano, per mostrare l’esemplare. Finirono, con gran piacere di Mattioli, che conosceva a fondo l’argomento e sorrideva con tutto il viso come gli capitava quand’era intellettualmente soddisfatto o voleva conquistare l’interlocutore, col discutere delle collaborazioni del giovane Marx alla ?Rheinische Zeitung? e, subito dopo, delle ?Ephemerides?, dov’erano usciti i più importanti saggi dei fisiocratici, di cui Bernstein riuscì, più tardi, a procurare al mio compagno di otia librari un esemplare in legatura settecentesca. Appena usciti da Bernstein, andammo in rue Jacob da Martin, il legatore che aveva ‘vestito’ alcuni libri amati da Mattioli, tra i quali la silloge di Croce della Ricciardi, che donò al suo autore. Il volto pallido, gli occhi affaticati, il camice nero da artigiano che Martin indossava, rammentavano la fotografia di Baudelaire eseguita da Nadar. Morto Bonnet, amico di Eluard e di Picasso, divenne il maggior legatore francese, il che vuol dire del mondo – in questo limitato terreno la grandeur funziona –, e da artigiano si trasformò in artista: creava, per ogni legatura, sempre diverse decorazioni. Ci recammo poi in rue de Tournon, per fermarci da Lucien Scheler, il più letterato dei librai. Il volto roseo sotto la chioma d’argento lo faceva somigliare a un abate settecentesco. Stava curando per la ?Pleiade? l’opera di Eluard e da poco aveva pubblicato un libro su Lavoisier, valendosi di documenti inediti: gli era capitata la fortuna di acquistare parte del suo archivio e della biblioteca, rimasti per quasi due secoli (da quando Lavoisier venne ghigliottinato) in una soffitta. Scheler e Mattioli, nella loro qualità di editori di classici, si complimentarono a vicenda, annusando insieme qualche rarità, ma presto il mio compagno si dichiaro stanco. Fuori, il cielo arrossava sopra il Lussemburgo e il buio calava sopra la strada in discesa. L’aria rinfrescava e lui si affrettò ad alzare il bavero del cappotto, per l’eterno timore di raffreddori.
Dopo aver fissato un appuntamento per l’indomani, riuscii a fermargli un taxi. Il giorno dopo lo accompagnai a render visita a Galanti: non aveva mai avuto negozio e ci accolse sulla soglia del suo piccolo appartamento. Alto, magrissimo, i capelli brizzolati che gli cadevano sulle orecchie, gli occhi ancora giovanilmente capaci di entusiasmo: di fronte a un magnifico libro, a un esemplare rarissimo...
Aveva il viso, dalla carnagione grigia e gli zigomi larghi, scavato da rughe profonde. L’appartamento appariva piccolo perché soffocato dai libri: si ammucchiavano nell’ingresso, nel corridoio, in camera da letto, in una saletta accanto allo studio, che n’era sommerso. Due grandi librerie mostravano attraverso i vetri legature e libri certo preziosi, ma da anni non venivano aperte perché l’avrebbero impedito le cataste di volumi tra cui sedemmo: Mattioli in una poltroncina che sembrava naufragare in un mare di in-folio, in-quarto, ottavi e dodicesimi; io su una seggiolina nella ristretta spiaggia in cui stava, ripiegato su uno sgabello, Galanti che, passandosi le mani sui capelli e sul mento, parlava velocemente, metà in italiano, metà in francese, sempre però con cadenza romagnola. ?Lo conosce di certo? disse, estraendo un sottile infolio da sotto altri più voluminosi. ?L’un de premiers livres sur les monnaies, scritto da un mio quasi conterraneo, Scaruffi di Reggio Emilia?. Era l’Alitinonfo del 1582: Mattioli lo possedeva, glielo avevo dato io. ?Je dois donc trouver autre chose? disse Galanti, e tirò fuori da una vicina montagnola la prima edizione de La république di Jean Bodin, in marocchino verde alle armi del duca di Sully, ministro di Enrico IV e a sua volta scrittore di materie economiche. Porse il libro all’ospite, osservando con un sorriso di compiacimento, a cui Mattioli rispose con uno, anche se contenuto, di desiderio, rigirandoselo tra le mani. ?Quanto puo costare?? chiese. Galanti accennò a una cifra tripla di quella che mi aspettavo e Mattioli rifiutò; mentre in quell’atto si girava, vide, accanto alla poltroncina, un libro coperto di pelle rossa con fregi in oro. Lo prese in mano e lo aprì. Si trattava del manoscritto – ?autografo?, si affrettò a precisare Galanti, che sicuramente glielo aveva messo vicino per farglielo scoprire – della Gerusalemme conquistata, piu tarda versione della liberata. Incredulo, Mattioli ne voltava le pagine e intimamente gioiva, era facile accorgersene, non solo per i versi che andava riconoscendo, ma per l’atmosfera satura di fantasmi culturali in cui si sentiva, per la magia di quei libri, immerso. Anche se davanti a una tale abbondanza gli era passata la voglia di chiedere i prezzi. ?Perché son cose che non hanno prezzo, o sarebbe irriguardoso attribuirglielo?. Tornammo sulla rive gauche. Avevo promesso a Mattioli che lo avrei condotto in un luogo che gli sarebbe piaciuto. Era, nello slargo sul fianco di Saint-Germaindes-Pres, un negozietto di articoli per legatori.
Gli feci mostrare sottili coltelli di legno che servivano a tagliare le pagine delle edizioni di pregio o a lisciare la piegatura sui fogli prima di cucirli, quando queste operazioni si facevano a mano.
Ce n’erano di chiari, in bosso, di scuri, in macassar. ?Sei un esteta decadente? disse Mattioli, che si affrettò ad acquistarne per se. Ne portammo a Milano per usarli come tagliacarte o segnalibri.
Alberto Vigevani
La febbre dei libri
Memorie di un libraio bibliofilo
Sellerio editore - Palermo