Da pochi mesi avevo inaugurato la mia prima libreria antiquaria in un padiglione dentro un giardino sul retro di un palazzo di via Borgonuovo – oggi scomparso –, che confinava con l’Orto Botanico accanto a Brera. Un pomeriggio di primavera del ’42, da dietro la vetrata, vidi avanzare a passo lento sul vialetto di ghiaia un piccolo uomo che si appoggiava al bastone. Mi chiesi chi mai potesse essere, tanto poche erano le persone che conoscevano la neonata libreria. Un momento dopo udii suonare alla porta d’ingresso. Andai ad aprire e mi trovai davanti il piccolo uomo, vestito di un modesto completo color tabacco scuro. In testa portava un basco blu che si tolse, oltrepassando la soglia ed appoggiando il nodoso bastone di legno sul bordo della scrivania della mia segretaria. ?Sono venuto? disse ?a saldare il conto del professor Einaudi?. Lo lasciai in piedi per andare a prendere la scheda dov’era segnato il debito del professore, che aveva comprato dal mio catalogo un’edizione rara di Sainte-Beuve.
Tornai indietro con la scheda e gli comunicai la cifra. Lui estrasse il portafoglio e pagò, chiedendo una ricevuta che gli rilasciai. Mentre usciva, riprendendo il bastone e rimettendosi il basco, gli dissi: ?La prego di salutarmi il professore?. Lui, voltandosi, accennò a un sorriso e rispose: ?Grazie: sono io, il professore?. Rimasi male per la figura che avevo fatto: c’eravamo scritti ma non lo avevo mai visto. Ripetè il sorriso e aggiunse: ?Mi raccomando, mi segnali tutti i Sainte-Beuve che le capitano?. E se ne andò lungo il vialetto col suo breve passo lievemente claudicante. Non sapevo, ne gli ho domandato poi, da cosa gli venisse la predilezione per Sainte-Beuve. Forse dalla lettura della sua grande opera su Port Royal, perchè non ho dubbi che la severa morale di Einaudi fosse di tinta giansenista, e del resto i giansenisti avevano avuto forte influenza in Piemonte. Ma d’inclinazioni, o hobbies, scoprii poi, ne aveva più d’uno: per le ceramiche di Vinovo, che raccoglieva; per l’agricoltura, che esercitava; per i libri d’economia, di cui aveva una ricchissima biblioteca; e soprattutto per i conti ben fatti. Un anno dopo, sul finire dell’estate del ’43, arrivarono i tedeschi. Entrambi, dopo diverse peripezie, approdammo in Svizzera. Lui andò a Ginevra, a insegnare all’università, io a Lugano, e per lungo tempo non c’incontrammo più. Lo rividi soltanto da presidente della Repubblica. Di anni ne erano passati una decina, eppure, a parte i radi e corti capelli d’argento che gli donavano, sembrava ringiovanito. Portava adesso un bell’abito blu e una camicia a righine dello stesso colore. Era accompagnato dal segretario e da un pingue prefetto meridionale, più basso di lui, il quale si soffermò a contemplare con evidente sospetto certi antichi telescopi d’ottone montati su treppiedi, ch’erano sul tavolone di noce della mia anticamera (distrutto da un bombardamento il giardino e il palazzo, avevo trovato dei locali in un’altra casa, sempre in via Borgonuovo) e avevano vagamente l’aria di spingarde salgariane. Lo tranquillizzai: non c’era pericolo, per il presidente; erano innocui strumenti. Tuttavia l’ossequioso e benevolo prefetto volle che ne smontassi uno, da lui scelto a caso, per esaminarne l’interno. Einaudi si sedette alla mia scrivania. Chiese di vedere gli schedari di letteratura francese (sempre per Sainte-Beuve) e di economia. Si mise a passare le schede a gran velocità, senza perdere tuttavia un rigo: ogni tanto si soffermava su una, facendo domande e osservazioni. La sua meticolosa memoria aveva un che di prodigioso. Due volte mi fece notare che il numero delle pagine di certi libri era sbagliato. Andai a controllare: aveva ragione. Da allora prese la consuetudine di venire in libreria ogni volta che sostava a Milano: in genere per l’inaugurazione della Fiera. Le ore che, secondo i giornali, trascorreva coi suoi familiari, le passava invece seduto alla mia scrivania. Rivedeva pazientemente le schede, a caccia di nuove acquisizioni o di opere prima trascurate, con più calma, facendosi mostrare i libri che potevano interessargli, anche se già posseduti: credo avesse tutta la sua biblioteca in testa.
Mentre si parlava di libri, di edizioni rare, avveniva che mi raccontasse di sé, di quando aveva conosciuto questo o quell’autore, quando e dove ne avesse comperato i libri. Aveva cominciato da studente: appena riusciva a raggranellare qualche soldo, subito li spendeva sulle bancarelle. E mi raccontava delle sue fortunate trouvailles. In quei discorsi appariva la sua personalità, altrimenti riservata. Confesso la mia ignoranza, ma, seppure competente di bibliografia economica, mi occupavo di letteratura, non di economia e, salvo qualche ?predica inutile?, non ho mai letto nulla di suo. Eppure credo che la sua personalità mi si rivelasse, come se fossi un suo appassionato lettore, già osservandolo, oltre che ascoltandolo. Aveva, anche se proporzionata al corpo, una piccola e ossuta testa di volatile, con occhi pungenti, mobilissimi, come sono appunto quelli dei volatili, divisi da un naso aguzzo che sporgeva sul mento volitivo. La faccia asciutta, quasi lignea, da uomo sobrio o, meglio, da contadino: i colletti gli andavano larghi, sì da mostrare il collo secco, rugoso. Nello scrivere di lui, che era riuscito a render fiorente la terra di Dogliani, mi viene in mente che ‘cultura’ ha l’identico etimo di ‘coltura’; amava la terra quanto i libri. Da antico piemontese la sua parsimonia, che era una virtù, sfiorava talora l’avarizia, al punto che correva voce che la moglie – la quale mai lo accompagnava nelle sue scorribande libresche – gli nascondesse l’effettiva entità delle spese di casa, che lui aveva voluto, sin dagli inizi della loro vita comune, scrupolosamente notate. Aveva stima della mia libreria (ne accenna anche in una postilla d’un suo libro) ma trovava i prezzi sempre troppo alti. Mi scriveva, coi suoi aggrovigliati, quasi incomprensibili caratteri, cosa aveva pagato questa o quell’opera prima della guerra del ’15 o dell’ultima, paragonando i prezzi a quelli dei miei cataloghi. Io rispondevo che non toccava a me dire a lui (che lo sapeva meglio di tutti) come i libri di materia economica fossero allora pochissimo apprezzati dal mercato – andavano di moda gl’incunaboli, le antiche edizioni degli umanisti o dei classici greci e latini, le stampe di Aldo o dei suoi emuli – e che, con due guerre, qualche rivoluzione e le conseguenti dispersioni e distruzioni, erano divenuti assai più rari. Lui, che come economista mi doveva dar più ragione che come cliente, non rispondeva alle mie obiezioni, ma, alla prima occasione, tornava alla carica.
Lunga fu la nostra discussione, verbale ed epistolare, sul valore della prima edizione del celebre libro di Adamo Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, che io avevo valutato nel 1951 in un catalogo 250 dollari. Einaudi sosteneva che valesse la metà della prima di Malthus (Essay on Population) che definiva assai più rara e che, nel 1926, aveva pagato 16 sterline: ?La sterlina? scriveva ?era già allora in deprezzamento. Moltiplichiamo tuttavia per 4, come se d’allora la sterlina fosse ridotta al quarto del suo valore. Sono 64 sterline d’oggi [!] che a 2,80 equivalgono a circa 180 dollari. Ora la prima edizione di Malthus è assai più rara della prima dello Smith. Ambedue si vedono poco nei cataloghi, ma lo Smith assai più frequentemente o meno infrequentemente. Valuterei lo Smith la metà del Malthus...?. Io rispondevo facendogli la storia dei prezzi dello Smith rilevati nei più importanti cataloghi e nelle aste, che andavano da dollari 155 nel 1947 a 250 nel 1950. Insomma, la nostra era diventata una relazione amichevole, che io apprezzavo molto, condita però, e anzi direi mantenuta, da garbate dispute. Ma come cliente Einaudi comperava pochissimo e sempre mi proponeva dei cambi con doppi, da lui posseduti, un po’ troppo a suo favore. Raffaele Mattioli che spesso si scontrava con lui per qualche acquisto, battendolo sul traguardo perché non aveva, tra le sue molte virtù, la parsimonia, e certo, in ogni caso non nella misura di Einaudi, mi raccontò che dovendo Einaudi visitare Napoli da presidente della Repubblica, in veste ufficiale, e avendo promesso di andarlo a trovare a Trinità Maggiore, Croce entro in grande agitazione, da geloso bibliofilo qual era. Pensava infatti che avrebbe dovuto offrirgli un dono, per solennizzare la visita, e che il libro a cui Einaudi faceva da anni la corte e al quale teneva moltissimo era quello eccezionalmente raro di Antonio Serra, Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento, dove non sono miniere, Napoli 1613. Sforzandosi di cercare in che modo avrebbe potuto evitare di privarsene senza tuttavia scontentare l’illustre ospite, gli venne a mente che Fausto Nicolini, suo devotissimo, ne possedeva anche lui un esemplare.
Croce lo invitò quindi a partecipare all’incontro con Einaudi, pregandolo di portare con sé il libro per mostrarlo al suo visitatore che desiderava vederlo: cosa che Nicolini fece. Croce presentò Nicolini a Einaudi e gli porse anche il libro personalmente, che Einaudi accolse soddisfattissimo come fosse un omaggio. Di Croce, beninteso.
Alberto Vigevani
La febbre dei libri
Memorie di un libraio bibliofilo
Sellerio editore - Palermo