Certo librai non si diventa a scuola (in America credono che compiendo corsi ad hoc si possa diventare persino scrittori). Anche se non è sufficiente, bisogna seguire certe regole: la prima è frequentare sin da giovanetti le librerie, piuttosto che altro genere di botteghe, se non direttamente i libri come potrebbe esser ancora meglio (avvicinare in ogni modo i libri, subirne il fascino, l’atmosfera anche senza aprirli).
Sarebbe raccomandabile una certa cultura, pure se generica e superficiale, quella che fornisce, o forniva una volta, la nostra scuola media superiore. Il più famoso libraio milanese dei miei tempi non credo avesse tempo per leggere: era un mostruoso computer umano (parlo di Cesarino Branduani). Un po’ come Domenico Vassura a Firenze per ciò che riguardava la letteratura italiana. E un’ulteriore virtu e una forte capacità comunicativa. Saper parlare, ma soprattutto ascoltare, non la pubblicità degli editori, ma i pareri o semplicemente i resoconti dei lettori scegliendo come consiglieri per ogni libro i più versati nell’argomento. Sfogliare anche superficialmente i libri consigliati e leggerne almeno qualche pagina, per poter abbozzare un discorso con l’eventuale cliente. Molti librai di oggi hanno iniziato come semplici commessi di libreria (Branduani come ragazzo di bottega, per divenire poi direttore della libreria Hoepli). Altri invece furono studenti che non ebbero la forza di volontà di finire gli studi, o che non poterono per altri motivi.
Io, seppure da adolescente e poi da giovane fossi un lettore maniacale, quando per via delle leggi razziali mi trovai senza una laurea o un mestiere in mano, fui presentato da un amico filosofo, Remo Cantoni, forse il miglior allievo di Antonio Banfi, al fratello Renzo il quale, proprietario della libreria La Lampada di corso Monforte, cercava in quel momento un socio. Diventai cosi libraio come tanti altri aspiranti scrittori non ancora toccati dalla fama o dalla fortuna, da Angioletti a Comisso, da Umberto Saba ad Alfonso Gatto, oppure perseguitati politici, come Giorgio Amendola, commesso a Napoli da Johannowski, a sua volta esule, con la moglie, dalla Germania di Hitler. Altri giovani intellettuali divennero invece editori, come Gobetti, Antonicelli, Neri Pozza. Ma, a parte questi ultimi, che divennero editori, alcuni furono librai di un momento, più o meno breve, della vita, mentre la loro fama in un campo o nell’altro si consolidò più tardi. È il caso di Amendola, che ammirai più, a essere sincero, come scrittore che come politico, benché da giovanissimo fossi stato coinvolto in certe sue direttive come ?compagno di strada?. Oltre ai commessi che fecero carriera, i librai migliori che ho conosciuto furono in buona parte degli irregolari, degli ‘spostati’, come si diceva, che avevano trovato una strada lungo scaffali colmi di libri. E, dopotutto, ‘libraio’ sembra già un titolo, in questo paese di titoli. Fa migliore figura, in ogni caso, di ‘bancario’ o ‘poliziotto’. A proposito di Giorgio Amendola, ho parlato di Johannowski e della moglie, una simpatica signora dal viso dolcissimo incorniciato di capelli d’argento. Conobbi marito e moglie la prima volta che andai a Napoli, anche come libraio, ma con lo scopo di ottenere per me e mia moglie il visto per gli Stati Uniti cui ci dava diritto un affidavit generosamente fornitoci da un pittore americano conosciuto in treno, venendo da Parigi. Mi rattristava la loro condizione di esuli, che avrebbe dovuto diventare da li a poco la nostra; gli Johannowski erano molto più anziani di noi, e non so che fine abbiano fatto. Vagamente mi risulta che un loro figlio dirige, o dirigeva, il famoso acquario scientifico napoletano.
Da Johannowski, che mi invitò a prendere un tè a casa sua, comperai uno stupendo esemplare, dai colori cosi brillanti che sembravano acquerelli originali, del Tenore, Flora napoletana. La seconda volta che fui a Napoli, sempre per la pratica del visto, andai da Gaspare Casella e venni trattato come un ragazzino (mi accolse subito con uno sprezzante ?tu?). Si dava grandi arie perche era stato elogiato da Anatole France e da Benedetto Croce, penso per le occasioni che aveva loro inconsapevolmente offerto. Tornai dagli Johannowski, dove potei acquistare una copia mediocre di un gran bel libro, diviso in due tomi, purtroppo con legature in mezza pelle diverse, anche se coeve: i Campi Phlegraei di Lord Hamilton (marito di Emma, l’amante di Nelson), con le superbe tempere di Pietro Fabris. Nel portarlo a Milano, pensai a una gentildonna che era stata crudelmente fatta impiccare a un pennone dell’ammiraglia inglese: Eleonora Fonseca Pimentel.
Alberto Vigevani
La febbre dei libri
Memorie di un libraio bibliofilo
Sellerio editore - Palermo