Non vorrei che il titolo di questo mio intervento, un po’ pomposo e generico, risultasse fuorviante. Tengo quindi subito a specificare che in realtà vorrei soffermarmi, più modestamente, sul commercio del libro antico nell’Italia del XXI secolo, prendendo in esame alcuni aspetti della legislazione che lo regolamenta, visti dalla prospettiva del libraio, ossia di chi questo commercio lo esercita quotidianamente. D’altronde si tratta di una tavola rotonda istituzionale. Il collezionismo e il commercio librario da un punto di vista storico-culturale saranno affrontati, nella tavola rotonda che seguirà, da interlocutori ben più illustri di me.
Mi sia concesso tuttavia un piccolo excursus storico. Il commercio del libro antico o di seconda mano non è un fenomeno recente. Basti osservare che il libro a stampa (lasciamo da parte in questa sede ogni riferimento al mercato del libro nel mondo antico e in età medievale, ma lo stesso discorso si potrebbe applicare agevolmente anche al commercio del manoscritto) è ed è sempre stato un bene commerciale. Già a partire dal Quattrocento le neonate officine tipografiche costituiscono delle vere e proprie imprese commerciali, i cui direttori, i tipografi, cercano di interpretare le esigenze del mercato e decidono di conseguenza i testi da stampare e le tirature. Il collezionismo librario, più limitato socialmente prima dell’invenzione della stampa a causa dell’alto costo dei codici manoscritti, si allarga velocemente a larghi strati della popolazione man mano che i costi di produzione del libro si vanno sempre più abbassando. Rinnovate esigenze di scrupolo filologico spingono i tipografi più colti a servirsi di collaboratori editoriali altamente qualificati, in questo furbescamente imitati da colleghi più intraprendenti che si contendono i lettori a colpi di millantate novità. Parallelamente si sviluppa anche la bibliofilia e, con essa, la ricerca delle edizioni più rare del passato. Già alla fine del Cinquecento sono attestate aste pubbliche di incunaboli. Grandi biblioteche private (agli albori della stampa tutte le biblioteche possono sostanzialmente dirsi private) si formano dietro l’intraprendenza e la passione di qualche collezionista; alcune di esse formano o confluiscono in biblioteche divenute nel frattempo pubbliche; molte altre invece andranno disperse o saranno vendute all’asta.
Niccolò V, considerato il fondatore della Biblioteca Vaticana, sarebbe probabilmente finito in bancarotta, se non fosse stato nominato papa, potendo così finanziare i propri acquisti presso il libraio Vespasiano da Bisticci con i soldi delle casse apostoliche. Dopo la morte di Gian Vincenzo Pinelli (1601), la straordinaria biblioteca che questi aveva formato, venne smembrata. Una parte rimase a Padova nelle mani della famiglia fino al 1789, quando, dopo la morte dell’ultimo possessore Maffeo Pinelli, fu venduta all’asta a Londra; un’altra parte (quella dei documenti riservati e dei manoscritti) finì alla Biblioteca Marciana. Una terza parte venne spedita da Genova a Napoli con tre navi. Lungo il tragitto una di queste venne assalita dai pirati, che ne dispersero il contenuto. Il resto rimase a lungo dentro delle casse nel porto di Napoli, finché non venne acquistato da Federico Borromeo per la sua biblioteca. La storia delle grandi collezioni librarie francesi (la Francia erediterà il testimone della bibliofilia dall’Italia verso la metà del 1500) è fatta di grandi accumuli e di altrettanto grandi vendite già a partire dal Seicento (la biblioteca di Mazzarino finirà all’asta addirittura due volte).
Gli Olandesi poi ereditano dal mondo arabo-spagnolo e sviluppano quel tipo particolare di vendita, che è l’asta pubblica. Già a fine Cinquecento sono attestate aste di libri nei Paesi Bassi ed è notorio che le matrici in rame delle carte geografiche di Gherardo Mercatore furono acquistate in asta, alla morte di quest’ultimo, dall’editore di Amsterdam Jodocus Hondius, che ne trarrà un Atlante destinato a diventare un bestseller internazionale.
La biblioteca, intesa come luogo fisico dove si raccolgono i libri, ebbe senza dubbio un ruolo decisivo anche nello sviluppo delle discipline letterarie, filologiche e bibliografiche. Senza la biblioteca di Alessandria, che raccoglieva tutto lo scibile del tempo, non sarebbero sorte la critica letteraria e storica e la filologia dei testi. Passando a tempi molto più recenti, fondamentali opere bibliografiche come gli Annali aldini di Antoine Augustin Renouard nacquero dalla passione collezionistica del loro autore, il quale prima raccolse fisicamente i volumi, quindi successivamente li descrisse. Anche la biblioteca aldina di Renouard, fra l’altro, subì la sorte della vendita all’asta.
Il collezionismo sul libro antico cominciò tuttavia a prendere una fisionomia moderna solo verso il XVIII secolo, mentre si deve attendere l’inizio del secolo successivo per vedere pienamente svilupparsi la figura professionale del libraio antiquario. Se l’Inghilterra tiene il passo della Francia sia a livello di aste (nel Settecento vengono fondate Sotheby’s e Christie’s) che di commercio librario, l’Italia appare alquanto defilata. Scarsissimo è il numero di vendite rilevanti nel nostro paese fra Sette ed Ottocento. Se in Francia, Germania ed Inghilterra si affermano grandi ditte con vocazione internazionale, in Italia il primo vero grande libraio antiquario degno di questo nome sarà sul finire del XIX secolo un prussiano, Leo Olschki, il secondo uno svizzero, Ulrich Hoepli. Non mancheranno naturalmente figure italiane importanti come quelle di Tammaro de Marinis o Giuseppe Martini, ma il grande impulso che il commercio di libri antichi avrà in quegl’anni negli altri stati dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti lambirà solo marginalmente l’Italia, pur ricca di un grandissimo patrimonio librario.
Nel secondo dopoguerra viene fondata l’ALAI (Associazione Librai Antiquari d’Italia), che dopo poco tempo entra a far parte dell’ILAB (International League of Antiquarian Booksellers). Sono anni di grande sviluppo anche per l’Italia, nonostante da noi la formazione professionale dei librai risulti più deficitaria e il mercato del libro antico sia lontanissimo dalle istituzioni e dal mondo accademico.
Ed è proprio qui che nasce l’anomalia italiana. Già nel 1903 Leo Olschki sulle pagine de “La Bibliofilia” (Ott-Nov. 1903) rimarcava la rigidità della normativa italiana in materia di esportazione di opere d’arte e libri antichi. Lamentando lo scarso interessamento dimostrato dalle biblioteche italiane in evidente contraddizione con l’impianto ideologico che fa da sfondo alla legge sull’esportazione, così si esprime: «Un altro codice membranaceo importante di Cristoforo Landino fu mandato per esame ad una Biblioteca che credemmo in obbligo di acquistarlo con premura e gratitudine; fu tenuto per molto tempo nel suo involto, e alla richiesta, se si dovesse considerare come acquistato, ce ne fu fatto il rinvio tal quale fu mandato. Una semplice descrizione del codice inviata alla Reale Biblioteca di Berlino indusse il direttore della medesima a farne immediatamente l’acquisto.... e potremmo enumerare molti altri esempi, ma crediamo che questi siano talmente eloquenti da dispensarcene; essi dimostrano che, mentre da una parte si cerca con tutti i mezzi di conservare all’Italia i cimeli letterari, dall’altra si manifesta un’indifferenza che è difficile di spiegare in chi anzi tutto dovrebbe essere animato da tal desiderio e potrebbe anche, volendo, appagarlo. In tutt’il mondo le grandi librerie sono centri del convegno dei bibliofili, com’era l’uso persino nell’antica Roma; ci vediamo ogni giorno onorati di visite da parte di bibliotecari e bibliofili d’ogni parte del mondo che vengono a conoscere ed ammirar le nostre collezioni come quelle di musei e biblioteche, mentre aspettiamo ancora — dopo otto anni — la visita dei bibliotecari della Nazionale di Firenze... Lungi da noi l’interesse materiale di qualunque genere; soltanto il vivo desiderio di non veder questo nostro bel paese inferiore in nulla agli altri ci mosse a far questa digressione significante, e di ciò vogliano tenerci scusati i nostri cortesi lettori».
In Italia, per molti anni, si è assistito ad una totale indifferenza o, talvolta, ad una malcelata diffidenza fra coloro che sono preposti alla salvaguardia del libro antico e coloro che lo commerciano. E ciò sia a causa di questi ultimi che per una preparazione professionale mediamente deficitaria sono spesso ignari del loro importante ruolo di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio cartaceo, sia a causa dei primi che in molti casi hanno visto nel mercato degli oggetti antichi e rari un’aberrazione da guardare con sospetto, se non addirittura, potendo, da proibire in toto.
Fortunatamente negli ultimi anni si sta verificando un graduale e progressivo avvicinamento dei due schieramenti (la tavola rotonda di oggi ne è una significativa testimonianza), che ha comportato dalla parte degli antiquari (o almeno di alcuni di essi) l’acquisizione di una maggior consapevolezza circa le loro responsabilità e il loro ruolo; da parte delle istituzioni invece (per istituzioni intendo naturalmente biblioteche, archivi, sovrintendenze, ministero, forze dell’ordine, dogane, ecc.) un maggior apprezzamento del ruolo storico del commercio libraio e della sua valenza internazionale.
Restano tuttavia molti punti ancora irrisolti. Eccone alcuni. L’Italia condivide con la Francia una legge piuttosto restrittiva circa le esportazioni e condivide con essa il diritto di prelazione esercitato dallo Stato attraverso la notifica. I due paesi si scostano però nettamente riguardo due aspetti fondamentali. La Francia ha introdotto delle soglie di valore che, benché siano diverse e più basse di quelle decise in sede di comunità europea, restano comunque piuttosto alte (l’Italia è invece ideologicamente contraria a qualsiasi soglia di valore). La Francia inoltre, quando decide di applicare il diritto di prelazione, acquista sempre il bene (in Italia invece si notifica spesso il bene senza acquistarlo).
In un momento come quello attuale, nel quale i tagli alla spesa pubblica destinata alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali (i due concetti, troppo spesso separati, dovrebbero procedere unitamente) hanno raggiunto dimensioni senza precedenti, pare arrivato il momento di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti della questione che, prima ancora che legislativi, sono a mio avviso di natura metodologica.
È ormai evidente l’impossibilità di poter conservare lo sterminato patrimonio storico-artistico italiano senza stabilire delle priorità ed è altrettanto evidente che, per affinità culturali, siamo tenuti a confrontarci per trarne esempi utili (laddove naturalmente ve ne siano) con quei paesi europei che condividono da secoli la nostra storia e che formano insieme a noi la Comunità Europea: va da sé che le norme legislative in materia di tutela dei beni culturali in un paese come l’Italia non possono essere rapportate a quelle di un paese come, per esempio, gli Stati Uniti d’America, ma sicuramente possono esserlo a quelle di nazioni che da secoli, alla nostra stregua, sono “produttrici” di beni culturali, quali Francia o Germania, tanto più oggi che operiamo in un contesto normativo comune.
Occorre di conseguenza porre le basi per un nuovo approccio alla materia. Per far ciò è ovviamente necessaria la collaborazione di tutte le parti in causa: il legislatore, i conservatori (biblioteche, soprintendenze, forze dell’ordine, ecc.) e gli antiquari.
Ora, restringendo il campo al mondo del libro antico che è quello di competenza dell’ALAI, ed in particolare al libro a stampa (tralascio in questa sede di discutere il problema affine, ma in parte diverso del manoscritto), ossia di un bene culturale che ha la particolarità rispetto a molti altri di essere un multiplo e di nascere come bene commerciale (le prime officine tipografiche, si diceva, si costituiscono e operano da subito come delle vere e proprie imprese commerciali), un approccio onnicomprensivo che tenga conto anche del valore sul mercato attuale di un certo libro, pare oggi per molti versi indispensabile. Se il libro è per sua natura un oggetto seriale ed un bene commerciale, ne consegue che la conoscenza del suo valore economico non rappresenta un dato accessorio, ma un fatto essenziale per la sua comprensione e, soprattutto, per la sua conservazione. Il legislatore italiano, si sa, a differenza di quello di molti altri paesi europei che, come noi, negli ultimi cinque secoli hanno stampato ingenti quantità di libri, non ritiene rilevante porre attenzione su questo aspetto, ritenuto svilente ed aleatorio. In realtà, forse in nessun altro caso come in quello del libro antico, il valore commerciale può essere stabilito con buona approssimazione, proprio attraverso il confronto fra vari esemplari offerti contemporaneamente sul mercato oppure inseguendo le tracce lasciate in passato su vecchi cataloghi di case d’aste o di librai antiquari da altre copie dello stesso libro.
Un nuovo approccio culturale e legislativo aperto al mercato avrebbe quindi il pregio di concentrare attenzione e mezzi laddove ne varrebbe veramente la pena. Questo consentirebbe infatti sia di meglio tutelare i nostri beni culturali, al di là della vuota retorica che considera ognuno di essi come una reliquia intoccabile di “valore inestimabile”, sia di valorizzarli, permettendo quella fruizione attiva che porta in ultimo anche ad un profitto economico per lo stato. Pensiamo, a questo riguardo, quanti soldi pubblici sono stati spesi per il restauro di libri di scarsissimo valore, i quali magari avrebbero potuto essere riacquistati sul mercato ad un prezzo veramente esiguo, soprattutto di questi tempi. Apro una parentesi: non è difficile imbattersi ultimamente in ristampe anastatiche di opere antiche in più volumi che costano molto più degli originali. Chiusa parentesi.
Il contesto in cui si trovano ad operare i librai italiani è quanto mai restrittivo, sia in senso assoluto sia se paragonato alla situazione in cui hanno invece modo di operare i nostri colleghi d’oltralpe.
Il Codice unico dei beni culturali e del paesaggio, all’art. 65, regolamenta l’esportazione dal territorio nazionale di tutti beni che abbiano più di 50 anni di età, indipendentemente dal loro valore. L’allegato A, richiamato dall’art. 74 del Codice, pone una soglia di valore di 46.598 euro per i libri aventi più di cento anni, ma si riferisce esclusivamente all’autorizzazione di uscita dal territorio dell’Unione Europea (il così detto attestato di libera circolazione) e non si applica all’Italia, se non subordinatamente all’art. 65.
In Germania non esistono vincoli all’esportazione, se non per alcune eccezionali opere di rilevante valore nazionale, che sono elencate in un documento consultabile anche on-line all’indirizzo: http://www.kulturgutschutz-deutschland.de. In Francia ed in Inghilterra esistono delle soglie di valore, variabili a seconda del tipo di materiale (incunaboli, manoscritti o libri a stampa), che sono le seguenti (semplifico, tralasciando materiali meno frequenti come fotografie, grafica, acquerelli, ecc.): Francia: incunaboli e manoscritti 0 euro; libri aventi più di 100 anni 50.000 euro; Regno Unito: incunaboli e libri aventi più di 50 anni £39.600, manoscritti e documenti 0 euro.
In nessun altro paese della CE esiste poi una legislazione che imponga di richiedere gli estremi di un documento identificativo nel caso di vendita a privato di un qualsiasi oggetto antico o usato avente più di 100 anni (art. 128 del T.U.L.P.S.). Vorrei raccontare, a questo riguardo, un piccolo episodio piuttosto significativo. Recentemente un collega cha ha bottega in una città d’arte italiana mi ha chiesto se potevo mettere a disposizione dei soci una traduzione in più lingue del suddetto art. 128 del T.U.L.P.S. relativo all’obbligo di registrazione del documento identificativo, dopo che era stato preso a male parole da un turista giapponese intenzionato a comprare una piccola stampa del valore di poche centinaia di euro, il quale, alla richiesta di esibire il proprio passaporto, era andato su tutte le furie e aveva lasciato il negozio indignato.
La situazione, già difficilmente sostenibile, è stata aggravata dal Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004, il cui Articolo 174 (Uscita o esportazione illecite), così recita: «1. Chiunque trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, etno-antropologico, bibliografico, documentale o archivistico, nonché quelle indicate all’articolo 11, comma 1, lettere f), g) e h), senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, è punito con la reclusione da uno a quattro anni o con la multa da euro 258 a euro 5.165. 2. La pena prevista al comma 1 si applica, altresì, nei confronti di chiunque non fa rientrare nel territorio nazionale, alla scadenza del termine, beni culturali per i quali sia stata autorizzata l’uscita o l’esportazione temporanee. 3. Il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. 4. Se il fatto è commesso da chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di oggetti di interesse culturale, alla sentenza di condanna consegue l’interdizione ai sensi dell’articolo 30 del codice penale».
Come se non bastasse, pochi mesi or sono è stato presentato in Parlamento uno schema di disegno di legge recante delega al governo per la riforma della disciplina sanzionatoria in materia di reati contro il patrimonio culturale, il cui art. 1 «prevede per il delitto di uscita o esportazione illecite di cui all’articolo 174 del decreto legislativo n. 42 del 2004, la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa da 10.000 a 30.000 euro; prevedere una circostanza attenuante, in misura non superiore ad un terzo, per il caso in cui il fatto sia commesso su oggetti di valore inferiore alle soglie di cui alla lettera B) dell’allegato A) annesso al medesimo decreto».
Ora, pensare che un cittadino italiano (perché la legge riguarda non solo chi opera nel settore come i nostri associati, ma anche le migliaia di privati che tutti i giorni vendono libri e altri materiali più o meno antichi sul web), possa rischiare, nella peggiore delle ipotesi, alcuni mesi di carcere e migliaia di euro di multa per aver esportato un romanzo del 1961 del valore, poniamo, di 80,00 euro, fa venire letteralmente i brividi.
La normativa italiana, già di per sé estremamente restrittiva e punitiva, non tiene poi conto del fatto che le modalità, le tempistiche e la prassi per l’ottenimento di una licenza di esportazione variano sensibilmente da regione a regione; del fatto che un comune ha posto la soglia di valore minima per la tenuta del registro di Pubblica Sicurezza a 50, 100 o 250 euro, mentre un altro non ha mai deliberato in materia; del fatto che le norme sono talmente tante e contraddittorie che capita di sentirsi fare richieste che esulano dal campo della legge stessa, a seconda dell’interpretazione che ne viene data (un collega è stato recentemente multato perché il carabiniere che ha fatto l’accertamento, riteneva che la registrazione dei dati del documento identificativo fosse obbligatoria anche in caso di vendita ad una ditta dotata di partita IVA; cosa poi successivamente smentita dal Gen. Muggeo, allora Comandante del Nucleo TPC).
Le richieste di permessi di esportazione sono poi rimesse alla buona volontà dei librai, che in quanto operatori professionali del mercato le chiedono sistematicamente. Ma il commercio del libro antico, se non altro di quello di piccolo valore, si svolge anche fuori dalle librerie, per esempio su ebay o abebooks, dove giornalmente vengono vendute da privati centinaia di opere senza che nessuno richieda alcun permesso o sappia neppure che abbisogna di un permesso. Molti librai di provincia, costretti a recarsi personalmente presso le sovrintendenze che sono situate nei capoluoghi di regione, rinunciano talvolta a delle vendite perché il valore del libro non giustifica il costo di due viaggi verso la città capoluogo, né è possibile attendere di accumulare varie richieste perché i tempi del commercio su internet sono molto rapidi. Se un acquirente straniero si vede costretto ad aspettare qualche settimana prima che l’opera gli sia spedita, a fronte di un pagamento immediato con carta di credito, sicuramente rinuncerà all’ordine e acquisterà l’opera da un libraio francese o tedesco.
Dato questo contesto, a mio avviso l’unica strada veramente percorribile sarebbe quella di stabilire, a livello nazionale, una soglia di valore al di sotto della quale si sia esentati da ogni obbligo che non sia puramente fiscale. Non è certo questa la sede per discutere in dettaglio di ciò, ma basti dire che soglie di valore sono già disponibili ed utilizzate in altri campi ed a quelle ci si potrebbe agevolmente rifare: la soglia dello “spesometro” oppure il limite massimo consentito per la circolazione del contante, solo per fare qualche esempio.
Riteniamo che introdurre una proposta ragionevole di questo tipo, permetterebbe una maggior libertà di manovra a chi opera nel campo degli oggetti di antiquariato, senza stravolgere minimamente l’impianto normativo che regolamenta il settore. Rigidezza legislativa e profonda crisi economica stanno veramente mettendo alle corde un settore, della cui utilità spero non ci si accorga solo dopo che sarà sparito.