Classici Italiani
Il manifesto del Rinascimento - 1496

Data 01/12/2020       Categoria Classici Italiani
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Il manifesto del Rinascimento - 1496

PICO DELLA MIRANDOLA, Giovanni (1463-1494). Commentationes Ioannis Pici Mirandulae in hoc volumine contentae: quibus anteponitur vita per Ioannem Franciscum illustris principis Galeotti Pici filium conscripta. Heptaplus de opere sex dierum geneseos. Apologia tredecim quaestionum. Tractatus de ente et uno cum obiectionibus quibusdam et responsionibus. Oratio quaedam elegantissima. Epistolae plures. Deprecatoria ad Deum elegiaco carmine. Testimonia eius vitae et doctrinae. Exibunt prope dies Disputationes adversus astrologos aliaque complura tum ad sacra aeloquia tum ad philosophiam pertinentia. (Bologna, Benedetto Faelli, 20 marzo 16 luglio 1496).

 

PRIMA EDIZIONE collettiva delle opere di Giovanni Pico della Mirandola, stampata postuma per le cure editoriali del nipote Giovanni Francesco, autore anche della prima biografia del celebre filosofo.

L’edizione non contiene tuttavia né le famose novecento Conclusiones apparse per la prima volta a Roma presso Eucario Silber nel 1486, né il commento in italiano alla Canzona de lo amore celeste di Girolamo Benivieni, che uscì solo nel 1519 al seguito delle Opere di quest’ultimo (Firenze, Giunta).

La celebre orazione De hominis dignitate, qui in prima edizione, fu scritta alla fine del 1486 in occasione della pubblica disputa che Pico andava organizzando a Roma per l’anno seguente, ma non fu mai pronunziata. Essa è considerata come una sorta di manifesto programmatico del Rinascimento, perché contiene la prima chiara teorizzazione dell’essere umano come microcosmo divino, ossia come creatura tesa verso Dio, ma libera e capace di conoscere e dominare la realtà. Questa esaltazione della condizione umana segna il definitivo superamento della concezione medievale dell’uomo schiacciato dall’onnipotenza divina. La seconda parte dell’orazione celebra invece la concordia fra tutte le sincere e profonde espressioni del pensiero umano.

Giovanni Pico nacque a Mirandola, il 24 febbraio del 1463, da Giovan Francesco I e Giulia Boiardo, zia del celebre Matteo. Contrariamente ai fratelli Galeotto e Anton Maria, una precoce vocazione per gli studi lo allontanò dall’esercizio delle armi e lo spinse nel 1477 ad iscriversi all’università di Bologna per studiare diritto canonico. Nel 1478, su invito del Duca Ercole I d’Este, si trasferì a Ferrara, dove conobbe vari letterati ed eruditi, tra cui Tito Vespasiano Strozzi. Dall’autunno del 1480 alla primavera del 1482 fu invece Padova, dove seguì i corsi di Nicoletto Vernia da Chieti e del cretese Elia Del Medigo, che lo iniziò alla conoscenza dell’ebraico e per lui tradusse i commenti di Averroè all’opera di Aristotele. Sul finire del 1482 si recò a Pavia, accompagnato da Manuele Adramitteno, suo maestro di greco, per seguire i corsi di retorica e di logica matematica. Nello studio pavese restò tuttavia solo un anno e nei primi mesi del 1484 si stabilì a Firenze.

Già negli anni precedenti Pico aveva avuto modo di entrare in rapporto con la città toscana tramite le due figure che risulteranno fondamentali per la sua formazione, ossia Marsilio Ficino e Angelo Poliziano. Egli aveva scritto a Ficino per avere da questi una copia della Theologia platonica e nel 1483 aveva inviato ad Angelo Poliziano i cinque libri delle proprie elegie latine. A Firenze egli beneficiò degli influssi del ricco ambiente culturale della città, all’epoca capitale del neoplatonismo di stampo ficiniano, da lui subito messo a confronto con l’aristotelismo appreso a Padova.

Dal luglio 1485 al marzo 1486 egli soggiornò a Parigi, dove ebbe la possibilità di assistere e partecipare alle dispute della Sorbona e di approfondire gli studi teologici.

Di ritorno in Italia, Pico, avvalendosi dell’apporto di Elia del Medigo e di Flavio Mitridate, intensificò lo studio dell’ebraico, del caldaico e dei testi cabalistici. Si immerse nei testi neoplatonici e lavorò alla stesura del Commento della Canzone d’Amore di Girolamo Benivieni. In questo periodo di profonda meditazione maturò in lui l’idea di riunire a Roma un convegno di dotti per discutere pubblicamente di varie questioni teologiche e filosofiche. Egli nutriva la convinzione di poter dimostrare che, sotto un’apparente diversità, Greci, Latini, Ebrei, Caldei ed Egizi avevano in realtà espresso un unico pensiero attestante la dignità dell’uomo e il suo valore predominante nell’universo.

Il 10 maggio del 1486, mentre era diretto a Perugia dove intendeva ritirarsi per preparare la disputa romana, Pico fu protagonista di una vicenda amorosa, insieme drammatica e romanzesca. Ad Arezzo infatti egli rapì la moglie di Giuliano Mariotto de’ Medici e fuggì con essa a cavallo. Presto tuttavia i parenti di lei lo raggiunsero, lo catturarono e lo fecero arrestare. Pochi giorni dopo venne comunque liberato grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici.

A partire dal mese di dicembre del 1486 cominciarono a circolare a Roma l’invito alla pubblica disputa, che avrebbe dovuto svolgersi nel febbraio del 1487, e l’edizione delle Conclusiones DCCCC publice disputandae redatte da Pico. In breve tempo tuttavia le tesi pichiane sollevarono critiche, reazioni sfavorevoli ed accuse. Il termine della disputa venne prorogato e papa Innocenzo VIII fece esaminare le Tesi. Nel marzo del 1487 una commissione appositamente nominata dal pontefice condannò sette tesi come eretiche e ne giudicò altre sei infondate. Il 31 maggio Pico pubblicò un’Apologia (Napoli, Francesco del Tuppo), scritta in venti giorni, con la quale intendeva dissolvere ogni sospetto di eresia. Innocenzo VIII emanò allora un Breve con il quale condannò le Conclusiones pichiane e ne vietò la lettura e la stampa.

Nonostante l’atto di sottomissione fatto il 31 luglio dell’87, Pico decise comunque di allontanarsi da Roma, contando di poter sottoporre la sue Tesi ad altri dotti, semmai alla Sorbona di Parigi. Il papa, una volta avuta la notizia del suo allontanamento, ne ordinò la cattura. Nel febbraio del 1488 egli venne arrestato vicino a Lione e rinchiuso nella rocca di Vincennes. La sua prigionia, grazie all’interessamento di vari principi italiani, in particolare di Lorenzo de’ Medici, e all’intervento dello stesso re di Francia Carlo VIII, durò tuttavia solo un mese.

Dall’estate del 1488 Pico si stabilì nei pressi di Firenze, sui colli fiesolani. Lavorò a un Commento ai Salmi e fece pressione su Lorenzo il Magnifico affinché chiamasse in città Girolamo Savonarola, da lui conosciuto a Ferrara. Intorno al 1490 pubblicò a Firenze per i tipi di Bartolomeo de’ Libri l’Heptaplus, un’esposizione mistico-allegorica sulla creazione. Nel 1492 compose il De Ente et Uno, apparso postumo nell’edizione delle opere, che si propone di conciliare la filosofia di Platone con quella di Aristotele. Il 18 giugno del 1493 il nuovo papa Alessandro VI lo assolse da ogni censura e nota di eresia.

Nell’ultimo periodo, volontariamente rinchiusosi nel convento fiorentino di San Marco, egli lavorò a una ponderosa confutazione dell’astrologia, le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, in cui attacca aspramente M. Ficino.

Pico morì il 17 novembre del 1494, nel giorno in cui i soldati di Carlo VIII fecero il loro ingresso in Firenze.

 

Descrizione fisica. Due parti in un volume in folio di carte 176, 144 non numerate. L’ultima carta della prima parte (YY10) e la terzultima della seconda (L4) sono bianche. La seconda parte, che ha frontespizio proprio, contiene le Disputationes adversus astrologia divinatricem. Marche tipografiche in fine. La seconda parte reca la data 1495, sicuramente erronea, perché da dati interni all’edizione si evince che essa fu stampata dopo la prima parte.

Di questa edizione esiste una ristampa lionese del 1498 circa, che è con ogni probabilità una contraffazione, in quanto alla fine della prima parte riproduce il colophon del Faelli.

F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010






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