BEMBO, Pietro (1470-1547). Prose di M. Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de Medici che poi è stato creato a sommo pontefice et detto papa Clemente settimo divise in tre libri. (Venezia, Giovanni Tacuino, settembre 1525).
PRIMA EDIZIONE. Per differenziarsi dalle Regole grammaticali della volgar lingua (1516) di Giovanni Francesco Fortunio, prima grammatica a stampa della lingua italiana, Bembo volle presentare le sue Prose della volgar lingua come un testo di piacevole lettura, una sorta di conversazione linguistica, i cui interlocutori, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e Federico Fregoso, hanno il compito di convincere il latinista Ercole Strozzi ad abbracciare il volgare. Dal momento che quest’ultimo si mostra persuaso piuttosto rapidamente, l’opera da suasoria si trasforma in didattica, passando ad insegnare le regole del bello scrivere in italiano.
Al momento della pubblicazione del volume i quattro protagonisti delle Prose erano già tutti morti. Bembo finge che l’opera sia stata composta intorno al 1516, mentre il dialogo è ambientato a Venezia nel 1502. In realtà la redazione delle Prose si protrasse per molti anni: la stesura definitiva del testo, comprensivo del terzo ed ultimo libro, cominciò probabilmente nel 1522.
Partendo dall’assioma che «non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore», Bembo si pose l’obiettivo non solo di fornire una grammatica dell’italiano, ma anche, grazie ad un’ampia esemplificazione di modi e parole tratte per lo più dalle Tre Corone del Trecento (Dante, Petrarca e Boccaccio), di creare una lingua letteraria comune, che avesse la stessa dignità ed eleganza del latino. Le Prose possono quindi essere considerate come il testo fondativo della coscienza critica della tradizione letteraria italiana. Grazie all’enorme successo (dalla scadenza del privilegio fino alla fine del secolo apparvero oltre venti edizioni), si imposero nel Cinquecento come manuale di scrittura in volgare e posero la letteratura italiana all’attenzione della cultura umanistica, fino ad allora intrisa quasi esclusivamente di latino. Grazie anche al successivo sostegno del Vocabolario della Crusca, le Prose contribuirono all’unificazione linguistica dell’Italia, la quale all’epoca, vale la pena ricordarlo, era un mero concetto geografico, nel segno di quella aulicità arcaizzante che nei secoli seguenti avrebbe toccato punte di parossismo. Ma non era certo questo l’intento originario del Bembo.
Questi nacque a Venezia nel 1470 da una nobile famiglia. Avviato dal padre Bernardo agli studi umanistici, si perfezionò a Messina (1492-1494), alla scuola del greco Costantino Lascaris. Tornato a Venezia, collaborò al programma editoriale e culturale di Aldo Manuzio, curando le edizioni di Petrarca (1501) e di Dante (1502).
Durante un soggiorno ferrarese conobbe e amò, ricambiato, Lucrezia Borgia (1480-1519), moglie di Alfonso I d’Este. A lei dedicò gli Asolani (1505), celebre dialogo sull’amore neoplatonico, oltre a numerose lettere e rime. Tra il 1506 e il 1512 fu alla corte di Urbino, quindi si trasferì a Roma, dove nel 1513 divenne segretario di Leone X. Nel 1519 fece ritorno in Veneto, stabilendosi a Padova, dove si dedicò alla stesura definitiva delle Prose della volgar lingua e alla raccolta e pubblicazione delle Rime (1530).
Nel 1530 fu nominato storiografo della repubblica veneta e bibliotecario della Libreria Nicena (la futura Biblioteca Marciana) di Venezia. Ormai famoso, nel 1539 ottenne il cardinalato, nel 1541 il vescovato di Gubbio, nel 1544 quello di Bergamo. Negli ultimi tempi risiedette quasi sempre a Roma, dove morì nel 1547.
Bembo pubblicò in gioventù un breve dialogo, il De Aetna (1496), frutto di un soggiorno ai piedi dell’Etna e dei suoi interessi scientifico-umanistici, sull’esempio delle Castigationes plinianae di E. Barbaro. Negli ultimi anni lavorò invece alla Historia vinitiana (1552), che copre il periodo che va dal 1487 al 1513.
Descrizione fisica. Un volume in folio di cc. XCIIII [recte 95] più una bianca finale. Il titolo è stampato al verso del primo foglio. Essendo l’opera protetta da un privilegio di stampa della durata di dieci anni, poco dopo la sua uscita apparve un’edizione contraffatta, in tutto identica all’originale, salvo che per le seguenti caratteristiche: a carta G6r, riga 22, l’edizione originale presenta il refuso “altre” per “arte” corretto a lato in una nota manoscritta, mentre la contraffazione reca la correzione a stampa nel testo; lo specchio di stampa della contraffazione è lievemente più stretto (cm 20x12,1 invece di cm 20x12,3); nel colophon la contraffazione banalizza il corretto “le stampino” in “la stampino”; la filigrana della contraffazione (cappello ecclesiastico sormontato da un fiore e contromarca d’angolo “A”) differisce da quella dell’edizione originale (cappello ecclesiastico sormontato da una croce senza nessuna contromarca d’angolo).
F. Govi, I classici che hanno fatto l'Italia, Milano, Regnani, 2010